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Il lavoro: indicatore di qualità dello sviluppo

Di Rosario Iaccarino


Il mercato del lavoro è “un’istituzione sociale”, per cui le dinamiche che regolano la domanda e l’offerta di lavoro “non sono le stesse che governano il mercato del pesce …”. Con queste considerazioni, il grande economista e premio Nobel Robert Solow intendeva sottolineare che il mercato del lavoro è innanzitutto un luogo abitato da persone, e quindi influenzato da scelte e comportamenti legati ad aspettative, bisogni, talenti, desideri, finalizzati alla realizzazione di sé. Parole che suonano come una sentenza quando, ancora oggi, nel nostro paese si registrano vicende di sfruttamento nel lavoro che mortificano la dignità delle persone, perché – al netto del lavoro nero e grigio, dolorosa e antica piaga italiana – sono le stesse normative sul lavoro a consentirlo. Infatti, pagare un lavoratore 4-5 euro all’ora, come accade in alcuni settori, per prestazioni peraltro discontinue e con l’aggravio magari delle spese di spostamento per raggiungere il posto di lavoro, se da un lato è un’offesa alle persone, dall’altro aggrava una “questione sociale” che, insieme all’esercito dei disoccupati – sempre più in competizione tra loro –  vede crescere disuguaglianza e povertà. Molte di queste realtà sono sommerse, poco conosciute, e non emergono a livello mediatico se non in alcuni momenti (vedi la recente vicenda Foodora), e non sono il frutto di un destino “cinico e baro”, quanto dell’inerzia e del cinismo della politica, che ha tenuto in vita il tradizionale sistema di diritti, impoverendolo sempre di più, senza tuttavia ridisegnare un diritto del lavoro capace di sostenere e tutelare le nuove forme del lavoro create dal mutamento dell’economia, lasciando così molte persone esposte alle dinamiche, spesso penalizzanti, del mercato. Lo stesso sindacato, in tale contesto, si è ritrovato indebolito, dovendo fare i conti con la difficoltà, (a volte anche per un suo ritardo culturale), a rappresentare figure “atipiche”, formalmente ascrivibili al lavoro autonomo, ma con tutte le caratteristiche (salvo le tutele previste) del lavoro subordinato. Il mercato del lavoro italiano si conferma fortemente dualistico, tra garantiti e non, e soprattutto – ironia della sorte – propone un paradossale mismacht tra domanda e offerta, per la scarsità di figure specializzate e di tecnici, che va a penalizzare le aziende più innovative sul piano tecnologico e organizzativo. Ciò acuisce le responsabilità della politica, che se non ha incentivato le imprese a spostarsi sulla via “alta” della competizione, stimolando e favorendo l’innovazione tecnologica e organizzativa, dall’altra, è tentata di spostare sbrigativamente il discorso su un piano assistenzialistico. Di fronte ad una situazione sostanzialmente di stallo dell’economia, malgrado qualche segnale positivo di crescita, bisogna avere il coraggio di ripensare radicalmente le politiche economiche e quelle del lavoro, uscendo dai vecchi schemi. Infatti, non è realistico (è addirittura ingannevole) pensare che si possa tornare ai tempi pre-crisi. Una fase del capitalismo si è chiusa, a causa dell’insostenibilità di un sistema economico-finanziario che a causa della finanziarizzazione dell’economia e di una corrispondente filosofia di “consumismo spinto”, ha vissuto su una bolla speculativa che una volta esplosa ne ha decretato la fine. La politica economica su scala europea e mondiale, lascia oggi prevedere effetti solo marginali sull’occupazione. Pertanto non potranno essere ulteriori riforme del mercato del lavoro (soprattutto se vanno solo nella direzione dell’abbassamento del costo del lavoro) ad aprire speranze per la crescita dell’occupazione, salvo che non si scelga con investimenti consistenti e mirati la leva delle politiche attive del lavoro e in particolare della formazione, allestendo contestualmente un ambiente favorevole (infrastrutture fisiche e digitali, sburocratizzazione, legalità, ecc.) alle imprese disponibili a investire in tecnologia e non a competere (illusoriamente) comprimendo il costo del lavoro. Si tratta di riproporre il tema del lavoro in un’ottica profondamente mutata, con l’adozione di strategie di inclusione che partano non (solo) dal mercato, né dalle normative, ma dalle persone, dai loro talenti, pensandole non fungibili per qualsiasi lavoro (magari instabilmente cronico), ma destinate a un lavoro che abbia valore e significato per la loro vita e che generi, nella logica dell’obbligazione sociale, corrispettivo del diritto, partecipazione attiva nella comunità. L’ampliamento della platea dei senza lavoro peraltro disperde, spreca, talenti e capitale sociale, ed è causa dell’impoverimento di una società che ristagna nell’autoconservazione, cristallizzando i privilegi di alcune generazioni a danno di altre. Ma è anche la forma più sottile e più grave di disuguaglianza, che ancor prima che materiale è morale, perché chiama in causa le condizioni per l’esercizio effettivo della libertà: quella da ogni condizionamento economico e materiale, ma soprattutto la libertà di esprimere la propria soggettività e di avere una vita degna. Tale prospettiva “personalista” appare oggi la risorsa più importante per l’umanizzazione dell’economia e sollecita un mutamento di rotta nell’approccio delle politiche pubbliche. L’insostenibilità nasce dalla separazione tra la dimensione economica e quella sociale. L’interezza della persona si propone allora come nuovo paradigma dello sviluppo umano. L’economia di mercato ha bisogno perciò di un bagno di virtù, quelle civiche, capaci di riportarla al rango di mezzo, per contribuire a generare quel valore che trova il suo fine nella sostenibilità sociale, ambientale, e economico-finanziaria. Tale prospettiva è decisiva oggi per il settore industriale, avviatosi verso la sua ennesima rivoluzione – la quarta –  che, notizia positiva, rimette la persona al centro dei processi tecnologici e organizzativi, riconsegnandole una sorta di sovranità nel processo produttivo. La “fabbrica intelligente” è uno spazio potenziale significativo di crescita delle persone perché richiede lavoratori formati, la partecipazione dal basso alle scelte dell’impresa, e la possibilità di conciliare vita personale, familiare e lavoro, grazie alle opportunità offerte dalla tecnologia di gestire fasi di lavoro anche a distanza. Fattori che in un gioco a somma positiva tra capitale e lavoro – nel quale conterà molto l’azione innovativa del sindacato (smart union in smart factory) – hanno effetti virtuosi anche sulla produttività, sul potere d’acquisto dei lavoratori e quindi sulla crescita economica complessiva, a vantaggio della creazione di nuove attività e perciò di occupazione nuova. Esiste quindi un valore di mercato che non nasce dal mercato, ma che si compone di fattori immateriali e sociali che gli indicatori economici non sono in grado di misurare, e sul quale aziende innovative profit e non profit stanno investendo con evidenti successi. Responsabilità, cooperazione, fiducia sono gli ingredienti di un modello economico sul quale l’Italia storicamente ha costruito la sua ricchezza, e che nel 1700, ha avuto un impulso straordinario con il pensiero sull’economia civile dell’abate Antonio Genovesi, il quale affermava che lo scopo ultimo dell’economia non è la ricchezza, ma la felicità pubblica. Ripartire da questo assunto può portare benefici all’impresa profit (la produttività aumenta se aumenta la qualità del lavoro) e ridare slancio all’economia del territorio attraverso la produzione di beni collettivi o cosiddetti relazionali, se si comprende che investire sulla fraternità e sul legame sociale genera per la comunità anche un valore economico e lavoro. Sono tante le esperienze di impresa nate nel nostro paese, soprattutto in aree difficili del Mezzogiorno, ma non solo, e che sui nuovi bisogni sociali e educativi (welfare di prossimità), sulla salvaguardia dei beni comuni e relazionali (arte, cultura, storia, cibo, ecc.) nella lotta alle mafie e per il ripristino della legalità, e nel rilancio di alcuni settori come l’agricoltura e l’artigianato, sono state capaci di aprire nuovi mercati e creare occupazione. Alcune esperienze hanno quasi dell’incredibile, se si pensa alle condizioni di svantaggio di partenza che spesso scontano, e che paradossalmente invece diventano la causa e il volàno dell’innovazione socio-economica. Per fare qualche esempio è il caso del microcosmo di cooperative sociali realizzato a Napoli nel Rione Sanità, oppure del Consorzio di cooperative NCO (Nuova Cooperazione Organizzata) che opera a Casal di Principe e nell’area aversana, del Consorzio di cooperative Goel in Calabria, oppure di quella fitta rete di cooperative nate all’interno del Progetto Policoro promosso dalla Pastorale del lavoro della CEI, oppure le esperienze nate nell’ambito delle Reti della carità. Ma l’elenco di realtà virtuose è assai più lungo, al Sud come al Nord, nel non profit e nel profit. Ciò che qui vale sottolineare è che la creazione di occupazione, in queste realtà, è spesso un obiettivo secondario (sia pure decisivo, ovviamente), che tuttavia vede nel recupero della qualità delle relazioni di comunità, nella riscoperta dei beni locali, e nella vivibilità di quartieri, paesi, città, la sua ragione sociale e i suoi obiettivi principali, valorizzando e attingendo al capitale sociale e civico già disponibile. Il valore comincia a generarsi dall’offerta, attorno alla quale si forma una nuova domanda di beni e servizi – ma anche di stili di vita – capace di indurre un modo diverso, responsabile, di consumare: il “voto col portafoglio”, lo ha definito Leonardo Becchetti. Una nuova era del benessere potrà dunque aprirsi se troveranno risposta, in un’economia a servizio delle società e non viceversa, i desideri più autentici delle persone (a partire dal lavoro degno) e delle comunità, che gli indicatori economici rappresentano solo parzialmente. Oggi finalmente si parla di superamento del PIL e di approdo al Bes (indicatore del benessere equo e sostenibile) che apre la strada a strategie politiche basate sulla crescita qualitativa e non solo quantitativa. Il lavoro, mai come in questa epoca storica, si propone come un indicatore di qualità dello sviluppo, come una dimensione per includere le persone nella cittadinanza e a sua volta riscriverla secondo le nuove domande di benessere individuale e comunitario. Avere o meno un’occupazione non è il valore assoluto in gioco, quanto lo sono il senso, l’identità, il riconoscimento, la responsabilità sociale, l’appartenenza ad una comunità, a cui la dimensione del lavoro, esperienza vitale non rinunciabile per la persona, rinvia.

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