Di Ivan Vitali, Socio Fondatore e membro del CDA presso Scuola di Economia Civile
Antonio Genovesi, il titolare della prima cattedra di economia e padre dell’economia civile, sosteneva che l’economia è la scienza della felicità pubblica.
La felicità cui si riferiva l’abate Genovesi era ben diversa dallo stereotipo dell’homo oeconomicus che tanto successo ha avuto nella letteratura scientifica: un –presunto- uomo così perfettamente razionale, auto-interessato, egoista e incapace di selezionare qualcosa di diverso da ciò che renderebbe massima il suo piacere -la sua “utilità”- nelle scelte economiche, da essere molto più somigliante ad un “idiota sociale” che ad una persona di quelle che si possono incontrare nella realtà, che ad un modello per costruire un modello economico.
L’uomo che Genovesi studia ed analizza nel porre i pilastri del pensiero dell’economia civile , quello che incontra nella vita reale –nella Napoli dei “mariuoli” e, al tempo stesso, centro culturale di primissimo livello, riferimento ed accoglienza del pensiero illuministico italiano – si nutre non solo di brama di ricchezza, non preferisce sempre il “di più” al “di meno”, è capace di generosità, di virtù civili, desidera e tende al bene comune almeno quanto alla ricerca di soddisfazioni individuali.
Biologicamente, gli esseri umani non vivono le regole dell’utilitarismo, non hanno nel loro DNA l”io contro te”, non sono piccoli operatori di un mercato fondato sull’annientare i competitor (cum-petere significa “chiedere insieme” e non “fare lo sgambetto!).
Nelle sue accurate ricerche e pubblicazioni –di cui in rete si trovano estratti video molto interessanti e piacevoli- Michael Tomasello rivela come, ben prima che l’educazione dei genitori possa avere influenzato il loro comportamento, i cuccioli di umano siano “altruisti nati”: sin dalla più tenera età, mostra Tomasello, gli umani cercano di entrare in relazione con i loro simili, si comportano in modo da aiutare persone mai viste e sconosciute, desiderano il “bene altrui, come animati da un innato “sguardo positivo” sul mondo. Anche crescendo, ci definiamo nella nostra identità di esseri umani attraverso la reciprocità dello sguardo dell’altro-da-noi, nella ricerca del riconoscimento delle altre persone e non occorrono articoli scientifici per evidenziare – lo fanno già abbondantemente le cronache quotidiane – quali siano le azioni ed i comportamenti di chi ritiene a di non avere valore, di chi non ha fatto l’esperienza di essere amato in maniera incondizionata, di chi ritiene di non meritare o di non potere ricevere stima, affetto, riconoscimento, un sorriso.
Il contatto con le proprie emozioni, la ricerca del confronto con le emozioni altrui, l’empatia, la ricerca dell’altro da sé sono gli ingredienti alla base della fiducia, le fondamenta di relazioni autentiche, profonde, generative. Oltre che dei legami affettivi e personali più solidi, sono anche gli ingredienti richiesti nelle organizzazioni, in qualunque gruppo di lavoro, in tutte le strutture umane: cosa accade in un team di lavoro, in politica, in finanza, quando si chiede un prestito, un mutuo, una partnership per un progetto, in una performance artistica, quando non si crea relazione con l’interlocutore? Quando manca la fiducia?
La relazione con gli altri nostri simili, con il creato, con “tutto ciò che va oltre la nostra pelle”, è un equilibrio in continua evoluzione: nel tempo, ogni giorno, la relazione che abbiamo con chi ci circonda, evolve, perché cambiamo noi, cambiano gli altri, cambia l’ambiente attorno a noi. È necessario, pertanto, fare una “manutenzione” continua, dedicare attenzione e cura alle relazioni che abbiamo pur sapendo che la ricerca di questo equilibrio dinamico, espone al rischio di essere “feriti”: al timore di non trovare rispondenza alle nostre aspettative, alla frustrazione dell’assenza di reciprocità, al timore che qualcosa o qualcuno sia in quel caso, in quel momento, più meritorio, apprezzabile, importante di noi. Questo rischio è parte integrante della vita ed è facile figurarsi quali siano le possibilità che derivano dal “difendersi” dalla ricerca di questo equilibrio, per timore del dolore che ne potrebbe nascere, piuttosto che affrontarla con apertura e positività, potendo farsi aiutare per comprendere ciò che non ha funzionato e trasformare i dolori in esperienza, le fatiche in crescita.
È di fondamentale importanza che, nei luoghi di lavoro -ove trascorriamo la maggior parte del nostro tempo attivo- vi sia cultura della relazione; uno dei principali imprenditori e dirigenti civile della storia economica italiana, Adriano Olivetti, ha insegnato che –oltre alla dignità dei “muri diritti” di Primo Levi- occorre promuovere e favorire le condizioni perché le persone possano desiderare di dedicare la propria energia, creatività, capacità, per fare bene il proprio lavoro, per fare “il bene” del proprio team, dei propri clienti; che la gratificazione che nasce dal riuscire a mettere tutto di sé stessi in ciò che si fa –con i conseguenti risultati in termini di creatività, innovazione, efficienza, sviluppo dell’impresa e delle persone che vi lavorano- passano attraverso l’umano, il confronto, l’espressione del dissenso, la possibilità di cambiare opinione, il desiderio di imparare sempre, da tutti.
Il “lavoro buono” genera “buon lavoro”: la relazione è la sua linfa vitale.
Articolo interessante e originale, lo condivido nei suoi contenuti.