Di Fabio Poles, Istituto Universitario IUSVE di Venezia e Scuola di Economia civile
Per l’economia mainstream l’agente economico, ognuno di noi quando agiamo comportamenti economici, assomiglia molto ad un calcolatore elettronico. Ciò è particolarmente vero per un imprenditore, agente economico per antonomasia. Come si caratterizza invece un “imprenditore civile”?
Vediamo per prima cosa più da vicino l’imprenditore del mainstream.
In primo luogo, questi conosce con precisione la propria funzione di utilità. Sa cioè dire che una cosa vale per lui, per esempio, 7 (si tratti di euro o di qualsiasi altra unità di misura) ed un’altra 9. E lo sa dire senza esitazioni di fronte a tutte le alternative di tutte le decisioni che deve prendere. Con un interessante corollario: questo imprenditore è perfettamente informato perché sa tutto, ma proprio tutto, quello che è necessario per costruire la sua funzione di utilità. Si trattasse anche di complicatissimi calcoli ingegneristici o di informazioni lontanissime da lui. In soldoni: per ogni aspetto di ciascuna decisione che deve prendere, sa associare ad ogni possibile esito un valore preciso in termini di propria utilità, di “tornaconto personale”.
In secondo luogo, essendo perfettamente razionale, sceglierà sempre di realizzare ciò che gli dà la massima utilità, che gli fa cioè “guadagnare di più”. Se da una parte 7 è il valore che attribuisce, poniamo, a costituire una startup tecnologica per dare lavoro a molti giovani e, dall’altra parte, 9 è il valore che collega a mettere su un panificio, sceglierà questa seconda possibilità perché gli è più “utile”. Nove infatti è di più di sette. Un secondo corollario, semplificando un po’, è che l’imprenditore del mainstream non è mai mosso da motivazioni come per esempio il desiderio interiore di scegliere una cosa piuttosto che un’altra perché ci vede una forma di realizzazione di sé anche se “vale” di meno di un’altra alternativa o addirittura se non vale nulla. È mosso soltanto dalla massimizzazione del calcolo numerico: 9 è maggiore di 7. Pertanto sceglierà ciò che vale 9. Punto e basta.
In terzo luogo questo particolare agente economico che è l’imprenditore mainstream è un individuo “autoriferito”, prescinde cioè dalle relazioni con gli altri individui e pensa soltanto a sé stesso. Immaginiamo che il nostro imprenditore sia Giulia e che la startup la costituirebbe avendo come socio Mario, con il quale da anni condivide riflessioni e sogni in merito, mentre il panificio lo metterebbe su da sola. Giulia sceglierà di concretizzare il panificio che vale per lei 9 indipendentemente da quello che penserà o proverà Mario. Ancora una volta: 9 è maggiore di 7 senza ma e senza se e con buona pace di Mario.
La verità che noi tutti sperimentiamo, e che sperimenta anche un imprenditore in carne ed ossa, è però che non siamo mai perfettamente informati, che facciamo fatica a capire cosa ci è più “utile” anche perché non riusciamo a sopprimere le motivazioni di natura diversa dal calcolo, come per esempio il desiderio di realizzare un progetto insieme ad amici che stimiamo e nei quali abbiamo fiducia anche se questo avesse un valore numerico inferiore rispetto alle eventuali alternative, e molto spesso le altre persone le abbiamo così tanto nel cuore che una volta di più rimaniamo indecisi sul da farsi indipendentemente da quello che dicono i numeri.
Insomma, l’economia mainstream tende a trascurare, più per eccesso di semplificazione che per una necessità teorica, due aspetti importantissimi dell’agire umano che sono la “motivazione intrinseca”, non strettamente strumentale e utilitaristica, da una parte e la dimensione “relazionale” dall’altra parte. Ma un serio discorso intorno all’imprenditore, oggi, non può più prescindere né dall’una né dall’altra cosa, pur senza dimenticare gli aspetti di calcolo.
Ecco perché sono sempre più numerosi gli studi degli economisti che ci invitano a pensare ad una figura più completa di imprenditore: l’imprenditore “civile” appunto. Una figura di agente economico che mette al centro la persona e le sue relazioni, che vede la propria impresa come un progetto di vita ed il profitto come un segnale che quel progetto funziona. Il tutto in un contesto fortemente radicato nei territori di insediamento di persone e comunità.
Mi si lasci chiudere con un ricordo personale. All’inizio degli anni duemila ebbi l’onore di pranzare insieme a François Michelin, l’imprenditore francese degli pneumatici scomparso qualche anno fa. Era più o meno il periodo in cui Michelin fu costretto abbandonare la formula 1 perché si rifiutò di far montare alle auto da corsa pneumatici la cui mescola non garantiva una sufficiente tenuta di strada alle auto stesse in condizioni di pioggia. Abbandonò cioè un ricco business come quello della F1 per non mettere a repentaglio la vita dei piloti.
Durante quel pranzo François Michelin raccontò di quanto amava produrre pneumatici perché gli ricordavano il nonno e tutto quello che questa persona, da lui tanto amata, gli aveva insegnato. Arrivati al formaggio disse: “Quanto è buono questo formaggio! Pensa quante persone non potrebbero gustarlo così fresco se i camion che lo trasportano non montassero i miei penumatici per correre veloci in sicurezza fino alle loro tavole”.
In quell’imprenditore e uomo, capo di una delle più grandi industrie d’Europa e del mondo, ci sarà stato anche tanto calcolo utilitaristico ma c’erano almeno altrettante “motivazione intrinseca” e “relazionalità”.
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