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Fare

Di Benedetto Gui, Istituto Universitario Sophia, Loppiano (Firenze)


“Quanto mi piace a me la vita attiva!” era solito dire mio zio accomodandosi su una comoda sedia a sdraio. Ridevamo tutti, ma, conoscendolo, la sua postura e le sue parole non erano così contraddittorie come potrebbe sembrare a prima vista. Piuttosto, esprimevano un sano equilibrio, quello che il nostro tempo stenta a trovare.

Siamo attivamente impegnati in un inarrestabile processo di trasformazione di terreni, boschi, mari, piante, animali, minerali del sottosuolo in quartieri residenziali, arredamenti, villaggi turistici, una grande varietà di cibi, mezzi di trasporto, oggetti di ogni foggia e funzione, ma anche, a ritmi non minori, zone industriali abbandonate, foreste devastate, lande degradate, acque avvelenate e fondali ricoperti di plastica e lattine, discariche alimentate dai cibi e dagli oggetti di cui sopra (spesso non passati nemmeno, o passati solo parzialmente e frettolosamente, per la fase dell’utilizzo). Un processo che i nostri indicatori di performance valutano positivamente e di cui lodano estensione e rapidità. Un processo possibile solo grazie ad un impegno costante e spesso strenuo del nostro tempo e delle nostre energie, insieme a grandi sacrifici di spazi vitali e di salute (e questo anche per i meno ben posizionati nella scala economico-sociale, oltre che per chi ha il prestigio e gli altri benefici derivanti dal trovarsi invece nei punti apicali).

Fare, e far girare la macchina, è l’imperativo collettivo che, senza esserne pienamente consapevoli, ci siamo dati. Un fare spesso ammirevole per la serietà, la professionalità, l’intelligenza, l’intuizione o la capacità di rischiare che lo caratterizzano, ma in non pochi casi mal indirizzato rispetto a quello che conta davvero, per la società nel suo complesso o anche per noi stessi.

Un fare che però non riguarda tutti, perché normative sempre più stringenti e dinamiche concorrenziali pressanti (sia sui mercati dei beni, sia sui mercati dei capitali) rendono le imprese esigenti, parsimoniose e caute nel garantire posti di lavoro. Da qui schiere di giovani, ma spesso anche adulti, impossibilitati a svolgere la loro opportuna dose di fare-lavorare. E l’estendersi di automazione e intelligenza artificiale fa temere che il fenomeno sia destinato a crescere.

La società deve rassegnarsi a mettere mano al portafoglio (magari anche a quello delle mega-imprese globali che oggi riescono a spostare i redditi tassabili verso i paesi con il fisco più accomodante) per dare comunque un reddito a chi è senza lavoro, rinunciando all’idea che possano mai averne uno (come già si è già fatto più volte attraverso le varie forme di pensionamento anticipato, poco entusiasmante privilegio di alcune minoranze)?

Perché penso che non sia quella la strada? La risposta sta proprio in quella parolina “fare”, che risponde ad un’esigenza profonda del nostro essere e costituisce una componente troppo rilevante della “fioritura” della persona perché vi si possa rinunciare. Certo, esistono molte forme di fare che non passano necessariamente per un posto di lavoro: dalle innumerevoli e benemerite forme di volontariato  a quelle non meno profondamente umane delle arti; dalla cura della natura alla cura domestica di bambini o anziani o malati (quella che la politologa canadese Jennifer Nedelsky raccomanda ad ogni adulto per almeno una dozzina di ore la settimana). Ma il lavoro riconosciuto come tale costituisce un’esperienza personale importante per quello che insegna, per gli ostacoli che abitua a superare, per il ruolo sociale che attribuisce, per le opportunità di relazione che crea.

E l’ambiente? Certo, per come le cose vanno oggi ogni posto di lavoro in più significa una dissipazione di risorse non rinnovabili in più e inquinamento ed emissioni in più, perché questi sono gli effetti dell’allargamento dell’econosfera a spese della biosfera. Ma questo non è un destino inevitabile. L’economia moderna è cresciuta risparmiando lavoro e sostituendolo con risorse naturali e combustibili, potendo scaricare sottocosto i rifiuti che da ciò conseguono. Questo può, anzi deve cambiare, con divieti, incentivi/disincentivi e – ancora di più, direi – con una nuova visione delle cose.  Non solo può ridursi l’intensità dei suddetti danni collaterali per posto di lavoro, ma molti posti di lavoro possono nascere proprio dalle attività di ripristino e conservazione.

Il messaggio per le nuove generazioni non può essere: “Non fate più, o fate di meno, perché abbiamo già fatto abbastanza (danni) noi”. Diciamo piuttosto “Fate meglio! Usatele le vostre energie, giocatevela la vostra voglia di trasformare la realtà, ma in una direzione più lungimirante”. Ricordando comunque, a loro e a noi, che a fianco di quel verbo, fare, ne devono trovar posto vari altri, come stare, riflettere, ascoltare, assaporare.

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