Intervista a Roberto Randazzo, partner dello studio R&P Legal e presidente di Esela
La ricerca dell’impatto sociale pare ormai quasi un imperativo, per la singola impresa e per il modello di sviluppo in generale. Ma a che punto siamo nella transizione verso un’economia che si possa complessivamente definire a impatto? Ne parliamo con Roberto Randazzo (partner dello studio R&P Legal), presidente di Esela, il network internazionale dei giuristi per l’impatto sociale.
L’impatto sociale si sta imponendo come nuovo paradigma?
In Italia come nel resto del mondo, è ormai conclamato che siamo di fronte a un cambiamento epocale. Il puro sistema capitalistico si è dimostrato non adeguato a garantire uno sviluppo equo e sostenibile. Non è più il momento del dibattito ma di guardare ai comportamenti che incidono nell’economia reale.
Cosa vuol dire porsi l’obiettivo dell’impatto sociale?
Dal punto di vista giuridico non esistono ancora delle forme cogenti ma siamo ancora nell’ambito della volontarietà e ciò che contraddistingue il nuovo modello economico che sta prendendo forma è la volontà di comportarsi diversamente sul mercato. Ad esempio impostando a livello strategico l’attività d’impresa per tenere conto non solo della ricerca del profitto ma anche delle esigenze sociali, delle questioni ambientali, in generale delle necessità della collettività. Che significa ad esempio permettere alle persone di mantenere i livelli di vita e di protezione sociale raggiunti nei Paesi industrializzati, mentre nei Paesi emergenti significa accompagnarle a raggiungere quei livelli. Per fare tutto questo occorre configurare modelli di business necessariamente diversi da quelli tradizionali.
Chi è più avanti e chi invece insegue all’interno di questa transizione?
Ci sono imprenditori e imprese lungimiranti, pionieri che da tempo hanno impostato il business in questo modo senza che nessuno glielo chiedesse o tanto meno imponesse. Poi sono arrivati il mercato e i consumatori a pretendere con sempre maggiore insistenza dagli imprenditori comportamenti diversi, esprimendo in concreto queste loro esigenze nel momento in cui decidono quali prodotti e servizi acquistare. Senza dubbio alcuni mercati sono più avanti in tale processo e altri si stanno adeguando, così come fra le imprese c’è chi si muove in questa direzione per opportunismo e chi invece per convinzione. In ogni caso stiamo vivendo una fase cruciale, in cui ci si sta spostando dall’ambito di pura volontarietà a cui accennavo ad uno che i giuristi definirebbero di “soft law”: si percepisce cioè di essere non obbligati giuridicamente ma sempre più indotti, da una serie di soggetti e fattori, ad adeguare comportamenti, atteggiamenti, presenza sul mercato a questo nuovo modello. Il passo ulteriore consisterà nell’entrare compiutamente in un ambito di “hard law”, quando sarà la norma a imporre certi comportamenti. Anche se in certe aree, su determinati argomenti, è già così: ad esempio in materia ambientale, o nel caso delle “quote rose” nei consigli di amministrazione delle grandi imprese. Similmente nel caso di quelle imprese multinazionali, ma non solo, che nella ridefinizione del proprio business nella prospettiva dell’impatto sociale iniziano a introdurre regolamentazioni, politiche, indicazioni, insomma spinte di vario genere che non configurano obblighi di legge ma, internamente, sono in pratica vissuti come tali.
Il modello dell’economia a impatto e quello dell’economia civile in sostanza si sovrappongono, o quanto meno si somigliano molto?
Il mondo dell’economia civile in Italia è stato per molti versi precursore di ciò di cui stiamo parlando ed è necessario rammentarlo in tutti i contesti, specie in quelli internazionali. Ci sono molte realtà nel nostro Paese che si muovono da lungo tempo in questa direzione e che, anche per la loro capacità di fare “educazione” su tutta una serie di valori, dalla condivisione all’attenzione per i più fragili, possono rappresentare oggi il partner ideale per le grandi realtà imprenditoriali che stanno ragionando su come sviluppare strategicamente il loro business con le caratteristiche di cui dicevo: in tal senso il momento attuale si può definire una congiunzione astrale perfetta. L’economia a impatto verso cui stiamo andando deve dunque fare tesoro della grande tradizione culturale italiana dell’economia civile, potendo inoltre integrarla con modelli innovativi di carattere finanziario e imprenditoriale quali ad esempio gli investimenti a impatto sociale o le B Corp e Società Benefit. A questo proposito mi sento di formulare un invito: che gli imprenditori che già operano con questa visione a livello globale si spendano in uno sforzo di contaminazione, iniziando dalle proprie filiere produttive. Credo che in questo modo il loro ruolo nel dare forma alla nuova economia a impatto potrebbe diventare ancora più rilevante di quanto già non sia.