Di Luigino Bruni, professore di economia alla LUMSA di Roma
L’economia ha sempre avuto anche un’anima di pace. Dai porti di Venezia dai quali partivano navi da guerra contro i turchi, arrivano navi di mercanti saraceni; e ancora oggi, mentre popoli sono in guerra, i mercanti di quegli stessi popoli cercano occasione di business gli uni con gli altri. I filosofi illuministi inventarono l’espressione ‘dolce commercio’ proprio per dire la chiamata alla pace che porta inscritta in sé il commercio, ed erano convinti (ingenuamente) che l’avanzare dei commerci nel mondo avrebbe ridotto o eliminato le guerre.
Anche Antonio Genovesi, padre dell’economia civile moderna, ha trattato il tema della pace. Una lettura dello sviluppo delle sue idee su pace ed economia nel corso della sua opera, dagli anni cinquanta del XVIII secolo fino alla fine degli anni sessanta, mostra un crescente sguardo critico di Genovesi nei confronti della dimensione pacifica del commercio. In una delle ultimissime opere economiche, il commento all’Esprit des lois di Montesquieu, spiegando quella sua famosa pagina ‘sullo spirito del commercio’ («L’effetto naturale del commercio è il portare la pace»), Genovesi scrisse qualcosa che sembra andare effettivamente in una direzione diametralmente opposta a quanto da lui stesso affermato nella sua intera opera. In quella nota leggiamo: «Il gran fonte delle guerre è il commercio. Egli è geloso, e la gelosia arma gli Uomini. Le guerre de’ Cartaginesi, e de’ Romani, de’ Veneziani, de’ Genovesi, de’ Pisani, de’ Portoghesi, e degli Olandesi, de’ Francesi, e degli Inglesi ne sono testimoni. Se due nazioni trafficano insieme per reciproci bisogni, sono questi bisogni che si oppongono alla guerra, non già lo spirito del commercio». Occorre però, anche in questo caso, scavare sotto la superficie per capire il senso di questa frase, e leggere questa affermazione alla luce della sua visione generale dell’economia come ‘mutua assistenza’. L’economista salentino critica lo spirito del commercio se inteso nel senso mercantilista del termine (la concezione dominante fino all’Illuminismo), dove il commercio era profondamente legato allo spirito predatorio e di conquista degli Stati; un commercio inteso e vissuto quindi non come assistenza reciproca ma come ‘gioco a somma zero’. Genovesi e l’Economia civile lodavano, invece, il commercio tra persone e tra popoli quando si sviluppa sulla base dei diversi bisogni e della mutua assistenza, come emerge dalla frase: «trafficano assieme per reciproci bisogni». E nell’ultima edizione napoletana delle sue Lezioni (1769), aggiunge una nota molto significativa: «A molti è paruto stranissimo ch’io metta per spirito del commercio lo spirito di conquistare. Tant’è: molti leggono per non pensare. Dicano dunque: perché si traffica, se non per acquistare?». Il rapporto tra pace e commercio è dunque ambivalente. È luogo e strumento di pace, ma lo stesso spirito di commercio, ieri e oggi, produce guerre e conflitti.
Tutto questo era presente anche nella Bibbia, dove pace è parola complessa. Alla sua radice c’è un esplicito riferimento all’economia. Nell’ebraico biblico, ad esempio, la parola shalom significa pace, ma anche benessere, prosperità, bene. Se studiamo l’origine etimologica, ci accorgiamo che la parola rimanda ad equilibrio, al ristabilire un ordine spezzato, tanto che alcune varianti (shulam e meshulam) richiamano il pagare. Pace e pagare hanno una radice comune. In latino, pagare viene da pacare, da fare pace, da pacificare, da ristabilire la quiete – la quietanza è l’atto che attesta che il creditore è stato pienamente soddisfatto. La pace incorpora allora una idea di giustizia come riparazione, come restituzione ed estinzione del debito e del suo squilibro. Nel mondo antico non ci può essere shalom finché una delle due parti sente uno squilibro a proprio svantaggio. Ecco perché i contratti, le estinzioni dei debiti, si siglano con una stretta di mano di pace.
Noi uomini e donne abbiamo un bisogno invincibile di simmetrie, di pene che ricreino l’ordine spezzato. Ne abbiamo bisogno noi, ma questo nostro bisogno ha prodotto teologie e religioni che hanno così costretto Dio a diventare meno umano delle donne e uomini migliori.
Ma la stessa Bibbia che ci ha parlato di uno slalom legato agli equilibri e alla logica simmetrica dell’economia, troviamo altre parole, quelle dei profeti, che sulla pace ci dicono altre cose. Tra le pagine più celebri abbiamo quelle di Isaia.
Come un arcobaleno nel cielo ancora buio, ci imbattiamo nel capitolo secondo del suo libro, in un gioiello luminosissimo della letteratura umana: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci. Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4). E qui dovremmo solo tacere, o, per chi sa ancora farlo, pregare. Isaia viveva in un mondo dove gli utensili di lavoro erano trasformati in armi da guerra («Con le vostre zappe fatevi spade e lance con le vostre falci»: Gioele 4,10). Ma un giorno ‘vide’ nella sua anima qualcos’altro, e lo scrisse. Scrisse ciò che non vedeva attorno ma solo dentro di sé, e lo fece perché noi oggi potessimo rileggerlo, dentro le nostre spade, droni, missili, dentro i nostri esercizi sempre più tecnologici e disumani ‘nell’arte della guerra’.
Ventisette secoli fa, quell’uomo antico vide qualcosa che non c’era ancora, forse perché possiamo diventare anche noi quello che ancora non siamo. Splendida allora è stata l’ispirazione di chi ha voluto porre queste parole stupende di Isaia nel muro di fronte al palazzo dell’ONU a New York. Le parole dei profeti sono grandi perché in-finite, perché incompiute.