Di Fiore de Lettera, direttore di Cityproject
Le città o diventano arcipelaghi di villaggi oppure non sono abitabili. Dopo decenni in cui si è esaltata la dismisura, le relazioni senza luogo e senza prossimità pare che le città – in particolare le metropoli europee – comincino a riscoprire la dimensione del “luogo”, come contesto in cui si attivano relazioni calde e contigue.
La narrazione sulla città contemporanea è ricca di esperienze di partecipazione dal basso, di condivisione di tempi e di beni: gli orti urbani sono l’ultima moda a New York, come a Berlino, l’economia e la vita si organizzano in spazi di lavoro condivisi, dove sembra bello tutto quello che comincia con “co”, co-working, co-housing, co-marketing. Molte sono le pratiche di riappropriazione da parte dei cittadini di spazi abbandonati: un campo incolto trasformato in giardino, un’intera via che viene gestita dagli abitanti, esperimenti di housing sociale che provano a riportare la vita di vicinato e gli scambi di mutuo aiuto al centro del vivere urbano.
Se è vero che si radicalizzano comportamenti individuali, chiusure e atteggiamenti difensivi verso lo straniero e il diverso, alla ricerca di comunità tra simili, rassicuranti e protette, crescono anche occasioni di cooperazione ed economie condivise (scambio, nuove forme di cooperazione, nascita di imprese sociali, vitalità di start up e imprese giovanili).
Questa idea di città di villaggi sta tornando anche nei programmi politici locali.
Pensiamo all’attività di Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, che lancia proprio in questi giorni il progetto “Ville du quart d’heure”, la città del quarto d’ora. Un modo innovativo di ripensare la Grande Parigi, come un puzzle di isole con una certa autonomia vitale. Un quarto d’ora è l’unità di misura del suo progetto, che immagina di ripensare la città intorno a servizi e funzioni raggiungibili dai cittadini a piedi o in bicicletta entro quel lasso di tempo. È una metafora stimolante. Riporta la città alla sua dimensione ad isole e comunità solidali, nelle quali siano presenti le scuole, i servizi al cittadino, i negozi e tutto quello che rende confortevole vivere in città, lasciando più possibile a casa l’auto.
Non è difficile cogliere il punto di innovazione. Il riferimento ad una comunità di persone che condividono un luogo è legata anche ad una visione di sostenibilità sociale e ambientale: la rinuncia all’auto e il rilievo dato alla mobilità lenta (rafforzamento delle piste ciclabili, spazi pubblici accessibili e di qualità) non rispondono solo a una logica ambientalista in senso tradizionale. Non si invocano rinunce, decrescite più o meno felici, austerità, ma si lavora su una dimensione ampia di benessere e di qualità di vita, che oggi non può essere pensata senza fare riferimento – anche – alla qualità dell’aria, alla piacevolezza della vita urbana, alla presenza di natura.
Camminare a piedi per la città, muoversi in bicicletta, trovare sotto casa tutto quello che serve nella vita quotidiana, entrano a pieno titolo nei programmi di politica urbana e di rigenerazione degli spazi urbani.
Le città sono le prime responsabili dei cambiamenti climatici, da esse dipendono molti dei comportamenti più distruttivi del pianeta e delle politiche nemiche della natura; d’altro canto, sono proprio le città ad essere oggi il laboratorio possibile e praticabile di ogni cambiamento ecologico.
Molte città hanno avviato intensi programmi di ripiantumazione urbana, come azioni mitigatrici delle isole di calore e per rispondere ai cambiamenti climatici. Milano, ad esempio, ha avviato dallo scorso anno un programma di arricchimento del verde e di posa di nuovi alberi nei cortili delle case popolari, in alcune delle zone più calde della cerchia urbana. In questo caso, piantare alberi o realizzare siepi non risponde solo a un’esigenza ambientale ma costituisce occasione per ripensare la qualità estetica di spazi urbani poveri e senza bellezza. Comunità che diventano tali, perché sostenibili.
Comunità sostenibili ha anche a che fare con la dimensione del lavoro. Nelle grandi metropoli europee ci accorgiamo di un cambio di rotta significativo: la manifattura sta tornando nello spazio urbano. Sono ancora una volta le grandi città, quelle del capitalismo avanzato, della finanza e dei servizi di eccellenza ma che non hanno perso un ancoraggio con la vita delle persone e con la storia della propria città che tornano oggi a ripensare il proprio modello di crescita facendo i conti con le risorse manuali, artigianali e creative delle persone.
Se gli Stati Uniti da anni conoscono questo fenomeno, da qualche anno anche in Europa le fabbriche stanno tornando a localizzarsi nei grandi centri urbani. In Austria il fenomeno comincia ad avere una sua consistenza numerica, e le grandi città come Vienna stanno predisponendo politiche di accoglienza per imprese che vogliono tornare a produrre in città e l’industria torna ad essere vista come un elemento essenziale per la stabilità di un centro di energia a rinforzo anche degli altri settori economici.