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Cercherei di fare particolarmente bene quanto sto facendo ora

Di Patrizia Cappelletti, Archivio della Generatività Sociale


In un testo di Romano Guardini, uno tra i più significativi filosofi e teologi del Novecento, ho ritrovato qualche giorno fa un piccolo ma interessante aneddoto. Interrogato su cosa avrebbe fatto se avesse saputo di morire un’ora dopo, il cardinale Carlo Borromeo rispose: “Cercherei di fare particolarmente bene quanto sto facendo ora”.
Sono stata molto colpita da questo invito, che arriva in un momento di grande disorientamento collettivo legato alla tempesta del Covid-19.
E per due ragioni.
La prima è che queste parole mi interrogano personalmente nel portare l’attenzione (in questi giorni “sospesi” mi risulta difficile dedicarmi a lungo a qualcosa) su “cosa sto facendo ora”.
Il quadro proposto è chiaro nella sua drammaticità e suona oggi particolarmente attuale: resta poco tempo e occorre confrontarci con la fine. E cosa fa Carlo Borromeo? Invece di cercare di sfuggire alla sorte o pretendere di esaudire l’ultimo desiderio come accade nei film al condannato di turno, la scelta – che diventa un invito rivolto anche a noi – privilegia il “restare qui”, per concentrarsi su quanto già si sta facendo.
A questo punto una nuova domanda viene spontanea: già, cosa stiamo facendo?
Almeno fino allo scoppio della pandemia, la vita contemporanea è stata un’accelerazione continua e quasi ossessiva di ritmi, incontri, impegni. Siamo andati tutti troppo veloci, a scapito di quella capacità di ascolto di noi stessi, di introspezione, che, connettendoci con l’oltre noi, ci consente di non restare prigionieri della banalità della vita e dell’Io.
Raramente abbiamo trovato il tempo per chiederci – profondamente, esistenzialmente – “cosa stiamo facendo”. Perché lo stiamo facendo.
E se quell’invito a “concentrarsi” fosse una nuova possibilità, una alternativa al nostro eccessivo “de-centrarsi”, quell’essere sempre “fuori da noi”, sempre in qualche altrove, “dislocati”, come suggeriscono gli scienziati sociali?
In questo movimento del “rientrare in sé”, ri-centrarsi c’è forse una prima promessa: poter ritrovare lucidità e consapevolezza di questo esistere – del dove siamo, con chi siamo, cosa facciamo e perché – riprendendo in mano la nostra vita. Divenendone maggiormente autori.
Ma c’è anche una seconda sollecitazione nell’invito del cardinal Borromeo. È quel “fare particolarmente bene” le cose non meno interrogante. Cosa può significare? I pensieri corrono veloci e si aprono come un delta di fiume. Subito mi ritorna alla mente un passaggio di Richard Sennet, grande sociologo inglese, che in un suo libro dedicato al fare artigiano parla di “maestria”: “La maestria designa un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per sé stesso”. E’ l’ormai famosa storia raccontata da Primo Levi del muratore italiano che ad Auschwitz costruiva, nonostante tutto, muri dritti e solidi: il bisogno del “lavoro ben fatto” è così radicato da spingere a fare bene anche il lavoro imposto.
“Il muratore italiano che mi ha salvato la vita portandomi cibo di nascosto per sei mesi detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale”, racconta Levi in una bella intervista concessa a Philip Roth.
E questa aspirazione al ben fare – ci assicura Sennet – vale per il lavoratore specializzato come per il medico, per il programmatore informatico e il genitore. Perfino per il cittadino, nel suo impegno per il bene comune. Nuovamente, ritroviamo questo concentrarsi sull’oggetto del nostro fare, riattivando un dialogo tra testa, mano e cuore che mobilita ragione, competenza e passione. È un movimento interessante, alimentato da una spinta che non è prestativa e neppure utilitaristica, a ben guardare, ma antropologica e che rivela una verità che tendiamo a scordare: che noi siamo, ci realizziamo pienamente, in quella aspirazione al “fare bene”.
Produttore, prodotto e processo: tutto è legato in questa tensione che ricompone il bello con il buono e il giusto, e che mai si arresta nella ricerca del miglioramento continuo di questo fare, dove la qualità è superiore alla quantità.
E in questo movimento anche il contesto, il mondo che ci circonda, non resta spettatore, ma diventa compartecipe, rivelandoci le interrelazioni visibili e invisibili di un unico ecosistema con il quale siamo chiamati ad essere solidali, e dunque sostenibili.
E così i destinatari, coloro che godranno direttamente o indirettamente di questo “fare bene” e che e a loro volta ne potranno essere ispirati, in un allargarsi continuo, come le cerchie di un sasso gettato nello stagno.
Non ci muove forse qualcosa dentro il godere di un oggetto ben fatto?
Platone collegava l’abilità tecnica al verbo poiein, “fare”, da cui deriva anche la parola “poesia”.
“Cercherei di fare particolarmente bene quanto sto facendo ora.”
Tutto torna. Qualunque cosa stiamo facendo, se la facciamo bene, ci rende tutti artigiani. Ci rende tutti poeti.

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