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Immaginare

Di Fabrizio Delfini, Urbanista


È nelle città che oggi riusciamo a capire meglio la parola “immaginazione”. Nelle città che cambiano e si trasformano. A Milano, come in diverse città americane ed europee, il cambiamento nasce da piccoli esperimenti nello spazio pubblico, nelle piazze e nelle vie di periferia.

Le città sono piene di spazi vuoti – brutti o belli poco importa – che rimangono vuoti e senza vita perché non rispondono alle esigenze delle persone, di chi vi risiede o semplicemente li attraversa, perché non invitano ad alcun tipo di uso o comportamento.

Spazi che nessuno immagina in altro modo (l’amministratore pubblico) e che non lasciano alcuna immaginazione (agli abitanti).

Passare dall’immaginazione al progetto – magari in maniera partecipata – e dal progetto all’esecuzione di un intervento di re-design urbano costa molto in termini di tempo, di risorse tecniche e finanziarie, e naturalmente, in termini di consenso.

Nell’era della comunicazione e della condivisione è proprio quest’ultimo aspetto, forse, a rendere il pensiero trasformativo della città molto delicato: il consenso è strettamente connesso alla percezione positiva da parte dei residenti o degli esercenti della zona in cui si interviene, nonché alla capacità del progetto di non innescare conflitti o, meglio ancora, di sanare quelli eventualmente esistenti.

Questo è uno dei motivi per cui gli ultimi decenni non sono stati particolarmente effervescenti dal punto di vista della rigenerazione urbana e ha visto amministratori e progettisti molto prudenti nel gestire il cambiamento, in modo particolare nei contesti misti, nei quali per esempio il carattere residenziale si intreccia con quello commerciale.

Ma poi è arrivata l’Urbanistica tattica.

E immaginare, cambiare, trasformare e fare un eventuale passo indietro è cosa più facile.

Le prime sperimentazioni sono state avviate dal Comune di Milano in collaborazione con la società Bloomberg, forte delle esperienze newyorkesi, e hanno interessato due quartieri simbolo: a sud il quartiere Corvetto, a nord la zona di Dergano. A seguire sono partite diverse altre esperienze in spazi grandi e piccoli: da Porta Genova a Venini, da Santa Rita a piazzale Lavater. Tutti luoghi con diverse funzioni e attori coinvolti, ma accomunati da due caratteristiche: scarsa valorizzazione dello spazio pubblico e sosta selvaggia.

Ma cosa vuol dire “urbanistica tattica”? E perché sta facendo così tanto scalpore? Questa tipologia di interventi leggeri, sperimentali e reversibili, non rappresenta soltanto un nuovo approccio verso lo spazio pubblico, ma una vera e propria rivoluzione del concetto stesso di Urbanistica. Un tempo autoreferenziale e calata dall’alto, oggi, con questi interventi rapidi e chirurgici, l’urbanistica innova completamente il rapporto con i suoi interlocutori principali, i cittadini. Diventa disciplina più attenta alle risorse (non solo economiche ma anche ambientali) e prima di attuare un grande intervento infrastrutturale preferisce avviare una sperimentazione temporanea per vedere come la popolazione si appropria quello spazio.

Oggi il paradigma sta cambiando. Le persone tornano al centro: si progetta e si sperimenta insieme a loro e, fatto da non sottovalutare, si arriva anche ad una gestione partecipata.

Le prime scintille risalgono a qualche anno fa, con iniziative più timide e temporanee (il tempo di un evento o di qualche giorno di test) attraverso attività quali il parking day (immaginare un nuovo spazio al posto di uno stallo di sosta) o TrentaMi. Ora i tempi sono maturi per sperimentazioni più lunghe ma soprattutto capaci di interessare spazi più ampi e un pubblico più vasto.

Il punto di forza dell’urbanistica tattica sta nella sua capacità di adattarsi alla realtà del luogo; cucire uno spazio pubblico su misura delle persone e vedere come evolve. Dopo qualche anno si può confermare e avviare un intervento strutturale, si può prolungare la sperimentazione, magari provando nuove soluzioni, oppure si può ritornare allo stato iniziale senza aver sprecato risorse economiche, energetiche (lavori infrastrutturali comportano consumi energetici elevati) e materiali (smaltimento di materiali di risulta e utilizzo di nuove materie prime).

Abbracciare dunque principi di sostenibilità sociale, ambientale ed economica: è qui che sta la rivoluzione dell’urbanistica tattica.

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