
La generatività, a cui si ispira la società benefit (RI)GENERIAMO sostenuta da Leroy Merlin, e il social business sono la stessa cosa?
Sono ugualmente capaci di contaminare il “business as usual” nel senso della sostenibilità sociale e ambientale?
Abbiamo posto queste domande a Enrico Testi, Direttore del Laboratorio di Ricerca ARCO-Action Research for Co-Development e dello Yunus Social Business Centre University of Florence.
Tra generatività e social business sono più le somiglianze o le differenze?
Il paradigma che ha ispirato e fa da riferimento a un’esperienza come quella della società benefit (RI)GENERIAMO è quello della generatività, collegato all’approccio dell’economia civile. Che si fonda sull’idea di un modello di sviluppo finalizzato alla creazione di valore appunto economico e sociale insieme. Questa idea di fondo non è sostanzialmente diversa da ciò che si prefigge il social business inteso secondo il modello di Yunus, per cui l’ambito in cui si muove (RI)GENERIAMO può essere considerato quello dell’impresa sociale, da intendersi nel senso più ampio. Al riguardo va detto che sebbene dal punto di vista formale vi siano delle differenze, ad esempio quanto alla possibilità o meno di distribuzione di eventuali dividendi, spesso le distinzioni sono di fatto abbastanza labili, specie se guardiamo alla tipologia delle attività che in concreto vengono svolte. La componente più interessante e innovativa di una realtà come (RI)GENERIAMO è legata invece, a mio avviso, al rapporto, direi alla commistione che realizza con la grande impresa.
In che senso?
Quando parlo di commistione mi riferisco ad esempio al fatto che persone che lavorano in Leroy Merlin ricoprono anche un ruolo in (RI)GENERIAMO: è lì la chiave più interessante di questa iniziativa, se la mettiamo in relazione alle molteplici modalità in cui si può esprimere la responsabilità sociale d’impresa, o CSR. Perché, in prospettiva, (RI)GENERIAMO apre ad un modello di responsabilità sociale con una progettualità molto ampia, con implicazioni forti in termini di relazioni che si vanno ad instaurare. Ad esempio tra il lato della produzione, da parte della società benefit, e quello della distribuzione, da parte della grande impresa, in questo caso Leroy Merlin.
Quest’esperienza può diventare un modello di riferimento?
Non mi sento di poterlo affermare ad oggi, perché si tratta di un’iniziativa nata relativamente da poco. Voglio però dire che se dovesse avere successo, come sinceramente auguro a chi la sta portando avanti, in futuro altri potrebbero trarne ispirazione e in qualche modo replicarla, riproporla, contribuendo quindi a diffonderla. In particolare penso a grandi imprese che, nell’ambito del modo in cui interpretano la CSR, già adottano iniziative di business inclusivo a livello di filiera. Ma non prevedono la costituzione ad hoc di una società benefit e poi la costruzione con essa di relazioni commerciali anche importanti. Credo che quella del coinvolgimento sempre più forte e strutturale della grande impresa, direi pervasivo al suo interno, in ogni fase del processo di creazione di valore attraverso un modello di business inclusivo, sia una strada comunque destinata ad affermarsi in futuro.
Crede sia passata l’idea che il “business as usual” non è più un’opzione? C’è consapevolezza della necessità di un cambiamento profondo nel modo d’intendere l’attività d’impresa?
La mia impressione è che forse in alcuni mondi tutto ciò stia passando più velocemente che in altri. La finanza, ad esempio, mi pare abbia iniziato a muoversi più velocemente rispetto alle imprese. Tutto il tema dei criteri di sostenibilità sociale e ambientale applicati dai fondi d’investimento, dai fondi pensione, è ormai piuttosto sviluppato, anche perché le persone vi prestano oggi grande attenzione. C’è poi tutto il tema della finanza a impatto sociale, l’impact investing, dove la mia impressione è che l’offerta di investimenti, cioè le risorse già pronte ad essere investite alla ricerca di un impatto sociale positivo, sia notevolmente superiore alla domanda, cioè alle effettive attività e progetti da finanziare, soprattutto di grossa scala, che integrano quei principi. C’è evidentemente il problema di far incontrare la domanda e l’offerta. E c’è anche il timore in alcune realtà, che magari sarebbero già pronte o comunque attraenti per questi investitori, di venire un po’ snaturate entrando in certe dinamiche legate alla scalabilità e al ritorno degli investimenti. Si tratta evidentemente di processi lunghi, che toccano aspetti anche culturali, e non bisogna avere troppa voglia di accelerarli. È chiaro che, invece, avere delle grandi imprese che già si muovono integrando certe modalità e sperimentando iniziative innovative, come nel caso di (RI)GENERIAMO con Leroy Merlin, può aiutare non poco nel senso dell’auspicato cambiamento.