Le storie di (RI)GENERIAMO
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Le storie di (RI)GENERIAMO: intervista a Massimo Moriconi, Omnicom

Comunicare la sostenibilità

Come si comunica la sostenibilità? Non è affatto facile, si sa. Anzi, è complicato e delicato. Forse trovare una risposta valida per ogni contesto è addirittura impossibile. Massimo Moriconi, General Manager & Amministratore Delegato di Omnicom PR Group Italy, ha accettato la “sfida” di approfondire l’argomento.

C’è un segreto, o una ricetta, per comunicare la sostenibilità efficacemente?

Non so dire se esista, ma partirei riflettendo su quello che, storicamente, è stato un grosso problema nella comunicazione della sostenibilità. Cioè il fatto che sia spesso stata percepita come un tema noioso. La grande opportunità che vedo, allora, sta invece nel collegare la sostenibilità a un concetto un po’ più ampio: quello del ruolo sociale del brand, della sua ragion d’essere, del suo purpose, per dirla in inglese. È il purpose ciò che consente di coniugare due obiettivi: sviluppare il business e produrre un impatto positivo sul pianeta. Inquadrata in questa prospettiva strategica, la comunicazione della sostenibilità smette di essere noiosa.

Può fare un esempio di cosa significa per un’azienda tradurre in concreto il proprio purpose?

Pensiamo a un’azienda di articoli di abbigliamento per l’outdoor, la vita all’aperto. Il suo purpose è far sì che le persone sperimentino i benefici fisici e mentali derivanti da un’esperienza di vita all’aperto: escursioni, percorsi in bici in montagna e via dicendo. E questo può accadere solo in luoghi dove la natura, l’ambiente sono intatti, conservati, salvaguardati. L’esistenza di questi luoghi, perciò, è una condizione essenziale per la sopravvivenza dell’azienda: senza di essi, i suoi prodotti non avrebbero più senso. Proteggerli diventa di conseguenza un obiettivo aziendale strategico fondamentale, il che determina tutta una serie di decisioni sia a monte sia a valle del business. Ad esempio, l’attenzione per un approvvigionamento responsabile delle materie prime di cui l’azienda necessita per realizzare i suoi prodotti. O l’attenzione a una gestione sostenibile degli scarti di produzione in ogni fase del processo, anche a livello di filiera, affinché non inquinino o degradino l’ambiente. Infine, la protezione appunto di aree verdi e parchi. È nella realizzazione del purpose che l’azienda scopre come business e impatto positivo sul pianeta siano indissolubilmente connessi. Detto altrimenti: definendo il proprio purpose l’azienda diventa immediatamente consapevole che produrre un impatto negativo sul pianeta la mette in pericolo.

Tutto questo come si riflette nella comunicazione?

L’indissolubilità del legame di cui dicevo tra purpose e salvaguardia del pianeta determina strategie e comportamenti anche a livello di comunicazione. Rifacendomi all’esempio precedente dell’azienda dell’outdoor, investire su un’iniziativa come quella di adottare un parco e piantare degli alberi, in quest’ottica non è più un’azione che può sembrare slegata dal business, isolata, se non addirittura fatta prevalentemente per essere sfruttata a livello d’immagine. È un’azione, invece, strategicamente necessaria per tutelare quell’ecosistema da cui il business dell’azienda dipende ed è così che dev’essere presentata da una comunicazione che intende essere efficace. Ma non vale solo per i temi ambientali: anche per quelli sociali e di governance, quindi con riferimento a tutto lo spetto dei temi Esg, il discorso non cambia. Quando una comunicazione è strutturata su queste basi, può davvero trasmettere l’attivismo di un brand, la sua intenzione di svolgere pienamente il proprio ruolo sociale perseguendo il suo purpose. Arrivando a smuovere testa e cuore del consumatore, a cambiare i suoi comportamenti. Andrei anche oltre, in quanto l’identificazione chiara del purpose permette a ogni funzione aziendale di definire la linea di comunicazione più adatta alla propria audience di riferimento, scegliendo anche gli strumenti e i canali di comunicazione che possono massimizzare la penetrazione del messaggio: la stessa storia, ripetuta da molti, in contesti diversi. Il responsabile della supply chain può raccontare della virtuosità della marca nel suo rapporto con potenziali nuovi fornitori, facendo leva magari sul tema delle certificazioni di filiera. Il responsabile finanziario può rivolgersi agli azionisti e agli investitori, attuali e potenziali, più attenti alle performance di sostenibilità. Il responsabile delle vendite può esaltare il “valore aggiunto ambientale”, o sociale, del prodotto. Marketing e comunicazione si interfacciano con media e influencer. Vale anche per la comunicazione interna, con i responsabili di sviluppo del prodotto che coinvolgono i collaboratori interni, che possono diventare a loro volta importanti attori della comunicazione. La chiave di tutto, ripeto, è l’identificazione e dichiarazione del purpose aziendale.

Il rischio di greenwashing è un po’ l’elefante nella stanza della comunicazione della sostenibilità. Come si affronta?

È un tema complesso e spinoso. Credo però che i consumatori possano andare alla ricerca almeno di qualche indizio per capire se possono dare fiducia o meno. Mi spiego: se nella comunicazione che si ha di fronte non c’è alcuna traccia, che so, degli Obiettivi di Sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (gli SDGs, o Global goals); se non c’è traccia di una rendicontazione non-finanziaria, cioè sui temi di sostenibilità, in cui l’azienda “ci mette la faccia”; se non c’è ombra di certificazioni, che si tratti di certificazioni di qualità, di efficienza, di sostenibilità, riferite a un prodotto, a un processo o a una filiera. Ecco, se manca tutto questo, allora c’è il sospetto che qualcosa non torna se un’azienda si dichiara sostenibile. Intendiamoci, anche quando questi elementi ci sono occorre verificarli, ma almeno sono un punto di partenza. Un indizio, appunto.

Data l’urgenza della crisi climatica, nella comunicazione oggi la dimensione green, cioè la “E” degli Esg di cui abbiamo parlato, è dominante?

Il green è sicuramente la priorità. Con la COP26 quest’anno ci attendiamo un’ulteriore intensificazione. Ma l’attenzione sulla parte sociale è cresciuta tantissimo e crediamo continuerà ad essere molto alta. Mi riferisco ad esempio a dimensioni quali diritti umani, diversità, condizioni di lavoro, protezione della privacy e dei dati, inclusione sociale, engagement con i collaboratori e la comunità. La parte legata alla governance è un po’ più “recintata”, riservata agli addetti ai lavori e in particolare al mondo finanziario, anche se quando per così dire si apre al grande pubblico può avere impatti molto significativi, ad esempio su temi come l’employer branding. Al riguardo, secondo una ricerca che abbiamo condotto sulla percezione del purpose aziendale in Italia, e che è in corso di aggiornamento, il 55% degli intervistati vorrebbe lavorare per aziende con un purpose dichiarato e riconosciuto dal mercato. Anche se per 6 su 10 la definizione del purpose è prioritariamente collegata a obiettivi di marketing. C’è attenzione e interesse, riguardo al purpose, ma c’è anche scetticismo.

C’è una via italiana, una sorta di “made in Italy”, alla comunicazione della sostenibilità?

Non arriverei ad affermare che esistono caratteri distintivi nel modo in cui i brand italiani comunicano la sostenibilità. Anche perché quando si promuovono azioni di comunicazione che mirano a incidere sui comportamenti dei cittadini-consumatori, si fa riferimento di solito a ciò che viene universalmente riconosciuto come importante per il pianeta e per l’umanità: la lotta alla crisi climatica, per esempio. Il fatto, però, che sia riconosciuta a livello internazionale la forza del made in Italy nei settori che tutti conosciamo, offre la possibilità di fare degli affondi su luoghi, persone e intelletto italici, collegandoli a determinati prodotti e servizi. Per fare un esempio: nell’industria delle biciclette, c’è la possibilità di collegare la dimensione della sostenibilità insita nel prodotto, il cui utilizzo è percepito come un modo – la mobilità sostenibile – di contribuire a contrastare un’emergenza universalmente avvertita come quella climatica, alle memorie storiche, ai percorsi, alle bellezze naturali, ai campioni di ciclismo italiani. Si parte da un assunto universale per sviluppare una narrativa collegata a eccellenze tipicamente italiane.

La narrativa sulla sostenibilità oggi dà spazio alle istanze e alle visioni dei giovani?

A me sembra che in vari aspetti della vita quotidiana, da quando andiamo a lavorare, o giriamo per le nostre città, a quando partiamo per una vacanza, siamo circondati, almeno in Italia, da fattori che rappresentano ormai il passato, che continua però a imporsi. Dappertutto, per esempio, troviamo stazioni di rifornimento di combustibili fossili, mentre sono molto rare le colonnine di ricarica degli autoveicoli elettrici. La cosa bella sarebbe invece che i giovani, che hanno una visione orientata al domani, potessero già oggi prendersi cura di questo loro futuro, facendolo “vincere” o comunque rendendolo molto più visibile a tutti nel presente, anche in termini di narrativa. Spetta a noi dare in mano a loro le chiavi del futuro.

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