
Di Tommaso Pazzaglini, Dottore Commercialista e Revisore Legale esperto di Enti Locali, membro Economy of Francesco
Sembra sia stata raggiunta una condivisione a livello europeo per emanare una futura direttiva sul salario minimo, ancora uso il condizionale perché la decisione per il via libera definitivo deve attendere l’approvazione del Parlamento e del Consiglio. Successivamente i paesi dell’Unione Europea dovranno provvedere a recepire tale direttiva. La situazione attualmente vede 21 paesi dell’UE su 27 che hanno già il salario minimo, mentre non è presente in Italia, Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia.
Il nostro paese ha scelto negli ultimi anni la contrattazione collettiva nazionale, ma se ci basiamo sui dati dell’archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro, previsto all’art. 17 della legge 30 dicembre 1986, n. 936, consultabile sul sito web del CNEL, ci rendiamo conto che i contratti vigenti, alla data del 30 giugno 2021, sono 985. Peraltro non tutti siglati con la partecipazione dei sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL). Il numero così elevato complica ulteriormente il mercato del lavoro.
C’è chi sostiene che questa misura in Italia non servirebbe per due principali ragioni: la prima perché i sindacati perderebbero il loro ruolo e la loro funzione e la seconda perché aumenterebbe il costo del lavoro per le imprese.
Cerchiamo invece di inquadrare meglio il mercato del lavoro in Italia. In base all’intervista pubblicata su Avvenire al Presidente dell’Inps viene affermato che ci sono 4,5 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora. Ciò significa che ci sono dei salari mensili netti sotto i mille euro. I più penalizzati ovviamente sono i giovani e le donne.
Quindi in questo panorama il ruolo del Sindacato non verrebbe “sminuito” anzi recupererebbe forza nel poter fare delle battaglie per incrementare il salario minimo e altre componenti delle retribuzioni dirette o indirette (esempio welfare aziendale, polizze sanitarie integrative etc) a favore del personale dipendente. Su questo sarebbe anche il caso di iniziare a pensare alla possibilità di derogare alla contrattazione collettiva in favore di quella decentralizzata, ma questo concetto lo riprendiamo successivamente.
Per quanto riguarda le imprese, il lavoro non deve essere visto come un costo ma come investimento in capitale umano, in grado di aumentare anche la produttività stessa dell’impresa, ciò consentirebbe anche di allargare la fascia del lavoro regolare a scapito di quello in nero, in quanto i lavoratori si vedrebbero non più disponibili ad accettare un importo minimo orario inferiore a quello di legge. Inoltre l’impegno su questo fronte dovrebbe proseguire sul tema dei tirocini “formali” ma non “sostanziali”, del lavoro occasionale e del lavoro subordinato attraverso la forma delle partite Iva.
Peraltro in attesa che venga alla luce un nuovo modello economico, sperando sia quello proposto da Economy of Francesco, quello attuale ha visto specialmente negli ultimi anni in Europa una forte attenzione alle politiche monetarie, cercando di mantenere controllata e a livelli bassi l’inflazione. Attualmente (in attesa di nuovi parametri sulla qualità della vita) l’indicatore per valutare ancora i Paesi è la ricchezza da loro prodotta, attraverso l’indicatore del PIL, ma quest’ultimo in termini reali (ossia relativamente alla produzione) non può crescere all’infinito, pertanto se si vuole aumentare il PIL lo si potrà fare solo in termini nominali, ossia facendo ripartire l’inflazione e pertanto i prezzi, in questo caso per esempio un aumento del 20% dei prezzi corrisponderebbe ad un aumento del PIL del 20%. Ovviamente per non creare ulteriori divari sociali, occorre recuperare l’indicizzazione dei salari all’inflazione (in passato la c.d. scala mobile).
In ultimo due considerazioni, i contratti collettivi nazionali prevedono che sull’intero territorio nazionale la stessa figura lavorativa con lo stesso inquadramento percepisca lo stesso stipendio sia a Milano sia a Potenza, nonostante il costo della vita nelle due zone salariali (o “gabbie salariali”, nel linguaggio comune) sia completamente diverso, ecco perché è necessario superare la contrattazione nazionale a favore di quella decentralizzata.
In conclusione dal 2026 sembra che l’Unione Europea applicherà alle merci importate lo strumento del Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam) colpendo attraverso delle extra-imposte le aziende che producono in paesi nei quali non vengono rispettate le norme ambientali. Sarebbe importante, a mio avviso seguendo lo stesso ragionamento, prevedere dei dazi doganali alle merci importate in Unione Europea e prodotte ove le condizioni salariali sono di puro sfruttamento e che non rispettano le nostre condizioni e regole del mercato del lavoro, ciò permetterebbe anche di bloccare la continua concorrenza sui prezzi al ribasso che ha contraddistinto il nostro mercato interno negli ultimi anni e che è stata la principale ragione delle delocalizzazioni (assieme alle politiche fiscali delle società verso i paesi a minore tassazione, altro tema da affrontare).

Fonte: https://www.ilpost.it/2022/06/08/salario-minimo-italia/